IL RAPPORTO TRA L'UOMO E LA NATURA
Filosofia contemporanea
La riscoperta della natura
Uno dei grandi temi del Romanticismo tedesco è la Natura. Da Galileo in poi, la Natura era stata prevalentemente considerata come un ordine oggettivo e come un insieme di relazioni fattuali legate fra di loro da cause efficienti, mentre la scienza era stata interpretata come un’indagine matematizzante ed analitica sui fenomeni osservabili. Ciò aveva generato l’idea di una meccanizzazione della natura come sistema di materia in movimento retto da un insieme di leggi meccaniche, escludendo ogni riferimento a presunti “fini” o “scopi”. I Romantici pervengono ad un’idea di natura:
- Organicistica: la natura è una totalità organizzata nella quale le parti vivono solo in funzione del Tutto;
- Energetico-vitalista: la natura è una forza dinamica, vivente ed animata;
- Finalistica: la natura è una realtà strutturata secondo determinati scopi, immanenti o trascendenti;
- Spiritualistica: la natura è anch’essa qualcosa di intrinsecamente spirituale, uno “spirito in divenire”;
- Dialettica: la natura è organizzata secondo coppie di forze opposte, formate da un polo positivo ed uno negativo, e costituenti delle unità dinamiche.
Conservazione e preservazione
Si possono così sintetizzare le diversità di vedute:
Camminando nella natura, vediamo un fiore, e a fianco un cartello con su scritto:
1- Non raccogliete il fiore affinché altri ne possano godere
2- Lasciate stare il fiore affinché possa vivere la sua vita
Di fronte ai problemi ambientali sono possibili, sostanzialmente, due atteggiamenti, che si riassumono nei concetti di “conservazione” e “preservazione”.
- Nel primo, la gestione dei beni naturali è intesa come amministrazione di risorse. Il punto di vista rimane quello dell’utilità per l’uomo. Gifford Pinchot, pioniere delle scienze forestali negli Stati Uniti (nel 1905 organizzò il servizio forestale americano), la conservazione ambientale era “la politica fondamentale della civiltà umana”; il suo scopo era lo sviluppo e l’uso della terra e delle sue risorse per il benessere duraturo dell’uomo: non tanto la protezione della natura, quanto il progresso della nazione. La scienza avrebbe insegnato all’uomo come dirigere la natura. Pinchot anticipava insomma il concetto attuale di sviluppo sostenibile. In questa impostazione, l’uomo è responsabile della natura perché ha doveri verso le generazioni future. Deve fare un uso consapevole delle risorse perché non deve lasciare ai posteri un ambiente irrimediabilmente devastato, in cui non sia possibile soddisfare i bisogni fondamentali. Bisogna agire con moderazione e prudenza, visto che non sappiamo quali saranno le esigenze dei nostri discendenti.
- Il secondo atteggiamento prevede che l’ambiente naturale venga conservato quanto più possibile intatto. Fra i suoi precursori si sogliono annoverare: Henry David Thoreau (1817- 1862) e John Muir (1838-1914).
Thoureau
L’inventore della “disobbedienza civile” (andò in prigione per essersi rifiutato di pagare le tasse in occasione della guerra tra Stati Uniti e Messico), nel 1845 si ritirò sulle rive del lago Walden, nel Massachussets, dove visse per due anni in una capanna fra i boschi costruita con le sue mani, nutrendosi frugalmente e dedicandosi alla mediazione nel contatto con la natura, come a dimostrare ai suoi contemporanei che si vive più felicemente e più vicini alla verità staccandosi dalla corsa frenetica al benessere materiale. “Vorrei essere saggio come il giorno che venni alla luce”, scrisse. La simbiosi con la vita selvaggia è il modo per acquisire questa saggezza. Thoreau appartiene a quella influente corrente del pensiero americano che va sotto il nome di “trascendentalismo” e che ha il suo rappresentante principale in Ralph Waldo Emerson (1803-1882): una visione religiosa della realtà, influenzata dall’idealismo tedesco, secondo la quale vi è una corrispondenza simbolica fra gli enti naturali e le verità spirituali; la natura è un repertorio di insegnamenti morali.
Muir
Si battè per la creazione di riserve naturali: a lui si devono l’istituzione dei parchi di Yosemite (nel 1864) e Yellowstone (1872) e la fondazione della Sierra Club, una delle più note e potenti associazioni in difesa dell’ambiente. Anche secondo Muir il contatto con la natura selvaggia (wilderness) offre all’uomo la possibilità non solo di ricreazione e di godimento estetico, ma anche di raccoglimento: l’uomo ritrova se stesso. Il contatto con la natura ha anche una funzione educativa, contribuisce a formare il carattere: come ha scritto nel 1987 il filosofo ambientalista statunitense Bryan Norton, un uomo che ha esperienze non solo della natura addomesticata, ma di tutta la natura è un uomo che sviluppa l’intera sua personalità, è sensibile a una pluralità di valori, è capace di agire in modo più consapevole, di prendere decisioni più informate e ponderate.
Nietzsche
Nell’ambito del percorso ecologico non si può non citare Nietzsche, non tanto perché si impegni a preservare il mondo, ma perché propone nella sua filosofia il concetto di Ubermensch, motivo assai noto ma anche assai complesso, cioè la necessità di condurre in porto il nichilismo attivo dopo aver distrutto tutti i valori della società occidentale, considerata decadente è necessario promuovere nuovi, altri, diversi valori. L’Oltreuomo, nella traduzione di Vattimo, può esprimere un modello di uomo che è in grado di accettare la dimensione tragica dell’esistenza e comunque dire “sì” alla vita, così com’è; egli è in grado di sostenere la “morte di Dio” e la perdita delle certezze assolute. Quindi l’Oltreuomo non è un uomo “supereroe”, un tipo di uomo “potenziato”, ma è un uomo diverso da quello che conosciamo, poiché è capace di creare nuovi valori e di rapportarsi in modo inedito alla realtà. Nella prefazione all’opera Così parlò Zarathustra così esprime la fedeltà al mondo che il nuovo uomo deve provare:
«Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovra terrene speranze!».
L’uomo è terra ed è nato per vivere sulla terra. L’anima, che dovrebbe essere il soggetto di un’ipotetica esistenza ultraterrena, è insussistente. L’uomo è sostanzialmente corpo. Questa rivendicazione della natura terrestre dell’oltreuomo fa tutt’uno con l’accettazione totale della vita che è propria dello spirito dionisiaco. In virtù di tale accettazione, la terra cessa di essere il deserto in cui l’uomo è in esilio per divenire la sua dimora gioiosa, e il corpo cessa di essere la prigione o la tomba dell’anima per divenire il concreto modo di essere dell’uomo nel mondo.
Heidegger
Le riflessioni di Martin Heidegger sull’essenza della tecnica moderna risalgono a prima del 19532. Con la tecnica moderna, secondo Heidegger, il vecchio ideale artigiano del “saper fare” si è capovolto nella coazione a “dover fare” della produzione industriale; e conseguentemente il “mondo naturale” viene conosciuto ormai soltanto come “fondo per l’impiego” e non più come semplice “fúsis”.
Queste riflessioni-nate in un clima diverso da quello della crisi ambientale rappresentano la più radicale messa in guardia nei confronti della tecnica moderna e, in particolare, nei confronti di quegli “esercizi di ammirazione” verso le tecnologie avanzate e l’innovazione tecnologica, che accompagnano oggi lo sviluppo dell’economia mondiale, ancora solo agli inizi.
In questo senso, le riflessioni del filosofo tedesco anticipano e integrano il pensiero ambientalista, che in genere ancora ignora Heidegger.
La preoccupazione filosofica di Heidegger è dunque fondata:
«Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un dominio completo della tecnica. Più inquietante è che l’uomo non sia preparato a questo radicale mutamento. Ed ancora più inquietante è che non siamo capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditativo, un adeguato confronto con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca».
Verso la metà degli anni ‘30, cioè a quasi dieci anni dalla pubblicazione della sua opera fondamentale Essere e Tempo del 1927, Heidegger avvertì l’esigenza filosofica di “pensare” la tecnica, che gli si veniva rivelando come una delle manifestazioni essenziali del mondo moderno. E di pensarla come rischio supremo per l’uomo, in analogia al tema della possibilità della morte immanente nell’ orizzonte finito delle possibilità umane.
Questa “riflessione” di Heidegger differiva radicalmente da quella che veniva elaborata nell’ambito della filosofia della scienza a lui contemporanea, volta ai problemi di metodologia e di validità degli enunciati, più che al significato “venturo” della tecnica moderna.
Gli studiosi del pensiero di Heidegger parlano di due approcci al problema della tecnica moderna che comunque sono presenti nel testo fondamentale della conferenza del 1953: “La questione della tecnica”, nel senso di “di domanda rivolta verso la tecnica”. Infatti è Heidegger a interrogare la tecnica per coglierne l’essenza.
La definizione strumentale della tecnica
Si tenterà ora di riassumere le linee essenziali del pensiero di Heidegger, tenendo presente che il suo procedere è muoversi fenomenologico attraverso il linguaggio e la etimologia delle parole. Seguiremo il testo della Conferenza di Monaco del 1953. Per arrivare all’essenza della tecnica - dice Heidegger - bisogna stabilire con la tecnica un rapporto di pensiero libero, sgombro da idee precostituite. Non possiamo stabilire questo rapporto libero fintantoché ci limitiamo a praticare la tecnica, ad accettarla con rassegnazione, ad esaltarla o a disprezzarla. Ma saremmo ancor più in suo potere, se considerassimo la tecnica come qualcosa di neutrale: questo ci renderebbe ciechi di fronte all’essenza della tecnica.
Ciò premesso, Heidegger dice che, alla semplice domanda “cosa è la tecnica?”, si suole rispondere che “la tecnica è una attività dell’uomo che crea un mezzo in vista di fini”.
Ma, avverte Heidegger, pur così esatta, la definizione strumentale della tecnica ci condiziona, se non addirittura ci impedisce di arrivare nel luogo dove stabilire il giusto rapporto con l’essenza della tecnica.
Che cos’è la strumentalità
Quindi l’essenza della tecnica potrebbe non essere qualcosa di tecnico. Potrebbe esser qualcosa di diverso dalla pura strumentalità. Proviamo quindi a muoverci in una altra direzione e a domandarci invece che cosa sia la strumentalità in se stessa. La risposta è: la strumentalità è ciò mediante cui qualcosa viene effettuato. La strumentalità cioè è responsabile (causa) dell’apparire di qualcosa; fa in modo che qualcosa avanzi nella presenza. Ma il far apparire, l’avanzarsi nella presenza, il disvelamento, a quale ambito appartiene? Su questo punto cruciale, dice Heidegger, è Platone, nel Simposio, che ci soccorre opportunamente: “Tutto ciò che fa passare una qualsiasi cosa dalla non presenza alla presenza è “póiesis” (produzione).
E’ di estrema importanza a questo punto per noi-dice Heidegger - pensare la póiesis (produzione) in tutta la sua portata, tenendo presente il senso che ad essa davano i Greci. Póiesis (produzione) non è solo la fabbricazione artigianale, e non è solo il portare all’apparire proprio dell’artista e del poeta. Póiesis (produzione) è anche fúsis (natura), letteralmente il “sorgere di per sé” , la natura nel suo manifestarsi. La fúsis è póiesis in senso più alto, perché ha in se stessa il movimento iniziale. All’opposto dice Hidegger, ciò che è prodotto dall’arte e dal lavoro manuale non ha il movimento iniziale in se stesso ma in un altro, nell’artigiano e nell’artista.
Mediante la póiesis, quindi, viene disvelato, portato alla presenza sia ciò che cresce in natura (fúsis), sia ciò che è apprestato dal mestiere e dalle arti.
Ma come si manifesta questa póiesis (produzione) nella natura, nei mestieri e nelle arti? Si dà produzione quando “qualcosa di nascosto” viene alla disvelatezza. La póiesis conduce cioè qualcosa fuori dal nascondimento al disvelamento.
Il “disvelamento” (alétheia). La tecnica come modo del disvelamento
Ma, per i Greci, il disvelamento è alétheia (in latino veritas, in tedesco Wahrheit). Per Heidegger sul disvelamento si fonda infatti qualsiasi “produzione” che riunisce in sé i modi del “far avvenire”: cioè, strumentalità e causalità. La tecnica, dunque, non è semplicemente uno “strumento” , ma un “modo del disvelamento”, un modo del conoscere. Si apre così un ambito completamente diverso per l’essenza della tecnica: l’ambito della verità.
Tecnica antica e tecnica moderna
Heidegger passa quindi ad esaminare l’etimologia, della parola tecnica (Technik). Essa viene dal greco téchne. Téchne è un modo di conoscere, per l’esattezza “l’intendersene”.
Per Aristotele, téchne diversamente da fúsis, disvela ciò che non si produce da sé.
L’elemento decisivo di téchne non sta nel maneggiare, nel fare, o nella messa in opera di mezzi, ma nel “disvelamento”. La tecnica è un modo del disvelare. La tecnica di spiega il suo essere nell’ambito in cui accadono di svelare e disvelatezza, dove accade l’alétheia la verità.
Il disvelamento che governa la tecnica moderna, però, non si di spiega in un produrre nel senso della poiesis. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna, per Heidegger, è una “provocazione”la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata. Il “richiedere”che provoca le energie della natura, osserva Heidegger, è un promuovere orientato a spingere avanti qualcosa verso la massima utilizzazione con il minimo costo.
La provocazione della natura e il concetto di “fondo per l’impiego”
Il disvelamento che governa la tecnica moderna ha, per Heidegger, un carattere particolare, quello del “richiedere” nel senso della provocazione. Questa provocazione si esplica nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto; ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni. Mettere allo scoperto, trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare sono modi del disvelamento. Questo disvelamento, apre a se stesso le sue proprie vie interconnesse, le dirige e si autoalimenta.
Ciò che è disvelato è richiesto di restare nel suo posto in modo da poter essere esso stesso impiegato per un ulteriore uso.
Ma la disvelatezza non è mai opera dell’uomo. Quando dunque l’uomo, nella ricerca e nello studio, cerca di catturare la natura intesa come uno dei campi del suo rappresentare, osserva Heidegger, egli è già precettato da un modo del disvelamento, che lo provoca a rapportarsi alla natura come a un oggetto della ricerca, finché anche l’oggetto scompare nel “fondo”.
L’uomo dell’età della tecnica, per Heidegger, è provocato al disvelamento in un modo particolarmente rilevante. Tale disvelamento riguarda anzitutto la natura come principale deposito di riserve di energia. Conformemente a ciò, il comportamento “impiegante” dell’uomo si manifesta anzitutto nell’apparire della moderna scienza esatta della natura. Il suo modo di rappresentazione cerca di afferrare la natura come un insieme organizzato di forze calcolabili. La fisica moderna non è sperimentale per il fatto che interroga la natura con la messa in opera di apparati tecnici; all’opposto: proprio perché la fisica usa gli apparati tecnici richiede alla natura di presentarsi come un insieme precalcolabile di forze. Per questo è impiegato l’esperimento, per domandare se e come la natura, così richiesta, si dia.
E’ perché l’essenza della tecnica moderna risiede nell’ “impianto di richiesta” che essa deve adoperare le scienze esatte. Di qui si origina la falsa apparenza che la tecnica moderna sia scienza applicata. Questa apparenza può imporsi come vera fino a che non vengano messe in luce adeguatamente l’origine essenziale della scienza moderna, e, più ancora, l’essenza della tecnica moderna. La scienza, cioè, è ancella della tecnologia.
RIASSUNTO: l’essenza della tecnica moderna è quel processo, apparentemente inarrestabile e che si autoalimenta, attraverso cui si è instaurato quell’impianto coattivo di richiesta che provoca e costringe l’uomo a di svelare (conoscere) il reale (cioè il mondo naturale e l’uomo stesso) come “fondo da impiegare”. Questo modo di conoscere, per Heidegger angusto al pensiero, domina oggi su ogni altro modo più originario per l’uomo di esperire il reale.
Il pericolo insito nell’essenza della tecnica moderna
Nella seconda parte della Conferenza del 1953, che esamineremo più brevemente, Heidegger si pone il problema del rapporto fra l’uomo e l’essenza della tecnica. E’ un tema da lui ripreso anche in altri scritti.
L’essenza della tecnica moderna, sottolinea Heidegger, porta l’uomo sul cammino di quel disvelamento mediante il quale il reale, in modo più o meno percettibile, diviene dovunque “fondo da impiegare”.
Su questo cammino, l’uomo procede perseguendo e coltivando soltanto ciò che si disvela nel modo dell’impiego, come “fondo”.
In tal modo si preclude all’uomo un’altra possibilità, quella di orientarsi verso l’essenza del disvelato, cioè non come “fondo”. Quando il disvelato si presenta all’uomo esclusivamente come “fondo da impiegare”, allora il cammino dell’uomo è sull’orlo del precipizio.
Ma proprio quando è sotto questa suprema minaccia, osserva Heidegger, l’uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l’apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è prodotto dall’uomo, e che dovunque l’uomo non incontri altro che se stesso.
L’uomo, cioè, per Heidegger, si conforma in modo così decisivo all’”impianto di richiesta” da non accorgersi di essere lui stesso il “precettato”, e quindi si lascia sfuggire tutti gli altri modi secondo i quali egli stesso può esistere, chiamato cioè ad un disvelamento più originale.
Il destino che ha messo l’uomo in cammino verso il disvelamento del reale nel modo dell’impiego come “fondo”, è, in questo senso, il pericolo estremo. Il pericolo - dice Heidegger - non è negli “apparati tecnici”. Non c’è nulla di demoniaco in essi; c’è invece il mistero dell’essenza della tecnica; è lì che il pericolo risiede. E il non “riconoscerlo” è il rischio supremo. Il dominio dell’essenza della tecnica - cioè il nichilismo - minaccia l’uomo nel senso che fonda la possibilità che all’uomo possa esser negato di raccogliersi in un “disvelamento” (in una verità) più originario di quello offerto dalla tecnica moderna. Cioè di non essere più in grado di esperire il richiamo di una verità più profonda (principiale).
Ma quanto più ci avviciniamo al pericolo, conclude Heidegger, >. Con questa espressione di speranza si chiude la conferenza del 1953.
CONCLUSIONE
Il fenomeno fondamentale che caratterizza l’epoca contemporanea è la tecnica. Essa rappresenta qualcosa di nuovo rispetto all’utilizzo di strumenti, che pure si dava anche nel passato. Ciò che è cambiato consiste nella prospettiva del “pro-vocare”, come dice Heidegger, che contraddistingue la tecnica. Il pro-vocare è un chiamarla natura, manipolandola e inducendola a rientrare nel processo della produzione, retto dalla regola della massima utilizzazione al minimo costo. Così, mentre il contadino di un tempo, ad esempio, curava e accudiva la terra, affidando alle forze della natura la crescita del grano, oggi la tecnica ha trasformato l’agricoltura in un’organizzata industria dell’alimentazione. Attraverso la tecnica la natura rivela se stessa e viene impiegata in un processo. Così scrive Heidegger: <>. Le vorticose trasformazioni operate dalla tecnica rivelano l’essere, perché portano allo scoperto la natura.
La tecnica però non solo svela, ma anche e, forse, soprattutto, nasconde l’essere. Essa comporta il pericolo che l’uomo si senta il signore della Terra e finisca con il credere che tutto ciò che esiste è un proprio prodotto. La tecnica moderna pone l’uomo nella condizione di non riuscire a incontrare altri che se stesso. Essa mette in pericolo il rapporto dell’uomo con se stesso e con tutto ciò che è. Quanto è in gioco è la possibilità per l’uomo di raccogliersi, di cogliere il disvelamento originario dell’essere. Nella tecnica, afferma Heidegger, si realizza pienamente il destino della metafisica occidentale che ha ridotto l’essere all’ente. La tecnica moderna infatti, è così presa a utilizzare l’ente, che finisce per cadere nell’oblio dell’essere. La posizione di Heidegger, come si vede, è critica, ma non vuole giungere alla demonizzazione della tecnica, né si propone come una idealizzazione romantica del mondo pre-tecnologico. Heidegger piuttosto, pur nel pericolo, vede per la tecnica la possibilità di un nuovo inizio. Perché esso possa avvenire è però necessario un atteggiamento di apertura, di domanda.
Jonas
Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica fu pubblicato da Jonas nel 1979. Dopo una profonda fase di "crisi" dell’etica sotto i colpi, per citare solo alcuni orientamenti, di quelli che Paul Ricoer ha definito i "maestri del sospetto" (Marx, Nietzsche, Freud), del pensiero postmoderno etc., negli anni ’70 si è assistito ad una rinascita dell’etica normativa la cui tesi di fondo afferma la possibilità di fondare razionalmente criteri, norme e principi in grado di orientare l’agire umano. La particolarità della posizione jonasiana è che egli recupera una concezione "forte" della razionalità pervenendo ad una fondazione metafisica dell’etica.
Jonas presenta la sua opera come un Tractaus tecnologico-ethicus che sviluppa le proprie tesi secondo un impianto concettuale rigoroso e sistematico. Il principio responsabilità è suddiviso in sei capitoli, ma qui ci soffermeremo maggiormente sul primo:
La mutata natura dell’agire umano
Il primo capitolo approfondisce le caratteristiche dell’etica antica per evidenziare la sua inadeguatezza rispetto alle nuove dimensioni dell’agire umano poste in essere dallo sviluppo della tecnica. Di qui la necessità di fondare un’etica della civiltà tecnologica.
Ambiti dell’etica tradizionale:
a) guida immediata a compiere certe azioni
b) determinazione di principi per tale guida
c) fondazione del dovere di ubbidire a tali principi
Premesse dell’etica tradizionale:
1) la condizione umana è data una volta per tutte
2) di conseguenza si può determinare il bene umano in modo oggettivo
3) la portata dell’agire umano (responsabilità) è strettamente circoscritta nello spazio e nel tempo
Jonas vuole mostrare che tali premesse non sono più valide. I "nuovi poteri" della tecnica hanno trasformato "la natura dell’agire umano" e ciò esige anche un "mutamento dell’etica".
Nell’antichità l’uomo con la sua azione non riusciva a scalfire l’ordine cosmico immutabile, la città delimitava il campo della libertà e della responsabilità poiché la natura non era oggetto di responsabilità. Il problema etico ineriva il solo mondo sociale.
Alcune caratteristiche dell’etica tradizionale
A. in tutta la sfera della techné, fatta eccezione per la medicina, ogni rapporto con il mondo
extraumano era neutrale sotto il profilo etico
B. l’etica era antropocentrica (limitata al rapporto interumano)
C. l’essenza dell’uomo era ritenuta costante
D. il bene e il male si manifestavano nella prassi stessa o nella sua portata immediata e non era
oggetto di pianificazione a distanza (etica del "qui e ora" o della sincronia):
Nuove dimensioni della responsabilità legate allo sviluppo della civiltà tecnologica:
1. Vulnerabilità della natura
Attualmente la responsabilità umana si è estesa alla natura, la restrizione della prossimità e della contemporaneità è cessata, le serie causali attivate dalla tecnica si presentano come irreversibili e cumulative, le condizione iniziali dell’agire umano non sono mai le stesse, l’esperienza non giova a nulla (ciò significa nella sostanza che una azione iniziata in un qualsiasi punto della terra, pensiamo alle immissioni di gas nell’atmosfera o ad una fuga radioattiva, ha conseguenze per l’ecosistema e quindi anche per l’umanità durevoli nel tempo e coinvolgono tutta l’estensione spaziale del pianeta).
Di conseguenza
2. Nuovo ruolo del sapere
Il sapere "diventa un dovere impellente" oggi sono in gioco "la condizione globale della vita umana" e "il futuro lontano", anzi la sopravvivenza, della specie che rendono necessario un autocontrollo del potere e una dottrina etica compiuta.
3. Diritti della natura
I fondamenti dell’etica vanno ripensati in considerazione del fatto che anche la natura ha dei diritti, non è sufficiente cioè ripensare soltanto alla dottrina dell’agire (aspetto etico) poiché è indispensabile anche ripensare la dottrina dell’essere (aspetto ontologico).
4. Etica della collettività
Al centro dell’agire c’è oggi non l’individuo ma la collettività per cui la moralità è penetrata nella sfera produttiva sotto forma di politica pubblica, il che deve determinare l’esigenza di nuovi imperativi
5. Assioma generale della nuova etica:
In avvenire deve esistere un mondo adatto ad essere abitato
6. Nuovo imperativo etico:
Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra.
Non è facile dare una fondazione teoretica al perché non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo rischiare il non essere delle generazioni future in vista dell’essere di quelle attuali, anzi abbiamo un dovere rispetto a ciò che non esiste, perché in quanto non esistente, non ne avanza la pretesa.
Il nuovo imperativo etico a differenza di quello kantiano, "evoca " una coerenza, di tipo metafisico e non logico, non dell’atto in sé, ma dei suoi "effetti ultimi con la continuità dell’attività umana nell’avvenire", e l’ "universalizzazione" non è più ipotetica (" se qualcuno facesse così..."), "al contrario, le azioni sottoposte al nuovo imperativo, ossia le azioni della collettività, si universalizzano di fatto nella misura in cui hanno successo".
Dunque l’uomo deve rispettare il diritto alla vita delle generazioni future. L’impegno verso il rispetto delle generazioni future porta all’abbandonamento di ogni ideale utopico (sia esso lo sviluppo scientifico o il marxismo) a favore del rispetto per la natura. Anzi Jonas, pur dichiarandosi favorevole ad una libertà politica, non esclude la possibilità dell’instaurarsi di una ecodittatura: ” In situazioni estreme non rimane spazio per i complessi sistemi decisionali della democrazia e non ci si può limitare ad attendere gli esiti.
7. L’uomo stesso è diventato oggetto della tecnica :
Nella nuova situazione che si è determinata con lo sviluppo tecnologico l’uomo interviene sulla propria vita ad esempio con la manipolazione genetica, con il controllo del comportamento, prolungando la vita.
CONCLUSIONE
È una percezione diffusa che la tecnica sia diventata non solo più potente, ma anche più distruttiva.
Ne deriva una duplice paura:
- della distruzione della natura;
Entrambe si possono riassumere in una formula:la tecnica minaccia la vita. È necessaria allora una nuova etica, che ponga i principi per un diverso rapporto tra uomo e natura e un diverso atteggiamento di fronte alla tecnica. Secondo Jonas la tecnica è animata da “un’utopia di onnipotenza”, ma il suo “prometeismo scatenato” minaccia la fine della vita sulla terra. Di fronte a questo pericolo supremo, bisogna esercitare la massima cautela; anzi bisogna lasciarsi guidare dalla paura: nell’incertezza, nell’impossibilità di prevedere le conseguenze più lontane di ogni passo tecnico, si deve agire dando più credito alle previsioni pessimistiche estreme che a quelle ottimistiche. Alla fiducia deve subentrare la coscienza della precarietà, della minaccia e della catastrofe incombente.
La nuova etica deve essere improntata al “principio di responsabilità”: si tratta cioè di tutelare l’esistenza del mondo e del genere umano, prendendosi cura non solo dell’umanità presente ma di tutte le generazioni a venire, dunque del genere umano in quanto tale; ovvero di salvare sempre e comunque l’essere dalla possibilità del non essere. L’uomo moderno, incoraggiato dalle filosofie meccanicistiche e positivistiche, crede di poter assegnare a suo arbitrio i fini agli enti del mondo. Per contro, la concezione (sostanzialmente aristotelica) secondo cui gli enti hanno fini in sé pone limiti a questo delirio di onnipotenza, ispirando rispetto e responsabilità. Anche secondo Jonas, l’arroganza dell’uomo moderno si nutre del mutamento di pensiero avvenuto con la nascita della scienza moderna, in particolare con la separazione cartesiana fra pensiero e materia e con l’esclusione della nozione di finalità dalla filosofia. Nella prospettiva aristotelica di Jonas, l’essere – compreso quello degli enti non umani – è anche un “dover essere”, un fine in sé, dunque ha diritto all’esistenza.
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